Tucciarone C.M., Legnardi M., Franzo G., Fortin A., Valastro V ., Terregino C., Cecchinato M.

La Bronchite Infettiva è una delle patologie più comuni nell’ambito della produzione avicola, con un forte impatto economico sull’allevamento ascrivibile alle minori performance produttive, alle misure di profilassi e contenimento, ma anche ai costi di monitoraggio e diagnosi. La complessità nella gestione di questa malattia è determinata principalmente dalla notevole variabilità genetica dell’agente eziologico, il virus della Bronchite infettiva (IBV), che ha dato origine alla comparsa di numerose varianti (Valastro et al., 2016). Queste caratteristiche rendono spesso necessario lo sviluppo di approcci diagnostici alternativi e di strategie vaccinali adattate alla situazione epidemiologica locale e talvolta alla singola azienda.
Fin dalla comparsa di questo virus, la ricerca di protocolli vaccinali efficaci è stata incessante. Numerosi studi condotti per valutare la cross-protezione tra ceppi hanno portato all’individuazione di alcune combinazioni di varianti vaccinali in grado di garantire un ampio livello di protezione nei confronti di un buon numero di ceppi comunemente circolanti (Cook et al., 1999). Vero è che la comparsa di una nuova variante spesso comporta la revisione del protocollo vaccinale, al fine di assicurare un’adeguata risposta immunitaria degli animali.
Il protocollo vaccinale che di consueto viene adottato è basato sulla somministrazione simultanea di almeno due vaccini vivi attenuati, di cui uno generalmente è rappresentato da un ceppo GI-I (Mass) e l’altro da uno di tipo GI-13 (793B) (Cook et al., 1999; Awad et al., 2016; Terregino et al., 2008), oppure derivato da ceppi indigeni circolanti sul territorio in modo da introdurre nella vaccinazione una componente omologa. In particolare in Italia, dove la circolazione del lineage GI-19 (QX) è predominante e fortemente penalizzante, la combinazione di vaccini Mass e QX risulta largamente utilizzata (Franzo et al., 2017; Franzo et al., 2020). In questo contesto si rivela quindi indispensabile considerare il piano di vaccinazione nell’interpretazione dei dati epidemiologici e dell’esito degli approfondimenti diagnostici. È stato infatti dimostrato che ceppi vaccinali in replicazione possono essere identificati ad alti titoli anche in fasi avanzate del ciclo produttivo (Tucciarone et al., 2018) e che la persistenza a livello locale di alcuni genotipi può essere causata dalla vaccinazione (Franzo et al., 2014). Inoltre, anche in presenza di condizioni epidemiologiche similari, uniformare i programmi vaccinali sul territorio rimane complicato (Legnardi et al., 2019). Questi elementi, insieme alla circolazione di ceppi di campo, rendono pressoché inevitabile la contemporanea presenza di più varianti nello stesso animale o allevamento e complicano la diagnosi, specialmente quando questa è eseguita su pool di campioni ottenuti da soggetti diversi.
Allo scopo di poter individuare il maggior numero di ceppi presenti in un campione diagnostico, numerosi laboratori adottano un panel di metodiche real time RT-PCR specifiche per i diversi lineage. Questo approccio però raramente è in grado di discriminare l’origine vaccinale o di campo del lineage rilevato, rendendo talvolta necessario il ricorso a metodiche di RT-PCR classiche seguite da sequenziamento nel tentativo di ottenere una più fine caratterizzazione. L’approccio diagnostico resta comunque eterogeneo, sia nell’algoritmo procedurale sia nelle metodiche adottate (Monne, 2016). Partendo dalle criticità sopra descritte, il presente studio compara tre delle metodiche di RT-PCR più comunemente usate, allo scopo di valutare differenze nell’outcome diagnostico dopo sequenziamento di campioni creati ah hoc per mimare il frequente scenario di “coinfezione” di un campione diagnostico.