Samarelli R., Schiavone A., Pugliese N., Circella E., Lombardi R., Siddique I., Camarda A.
La Malattia di Newcastle (ND), o Pseudopeste aviare che è sostenuta dall’Avian Paramyxovirus-1 (APMV-1), è tra le malattie a maggior impatto per l’economia dell’industria avicola. Il suo agente eziologico, che si caratterizza per l’elevata capacità di diffusione tra i volatili, manifesta uno spettro d’ospite ampio, che comprende moltissime specie di uccelli selvatici, sia stanziali che migratori [1]. Questi volatili rappresentano una fonte importante di diffusione del virus nei diversi continenti, e di endemizzazione in aree più ristrette, da cui la malattia periodicamente riparte [2,3]. L’impiego oramai consolidato dei vaccini e l’adozione di misure di biosicurezza rigorose [4] hanno contribuito, nei paesi ad elevata vocazione avicola, a ridurre l’impatto esercitato dal virus negli allevamenti [5]. Esso, invece, ha continuato a propagarsi liberamente in ambiente selvatico [6]. Tra l’avifauna selvatica, oltre a ceppi dotati di potenzialità patogena [7] ne circolano molti di origine vaccinale [8], quali LaSota e Hitchner B1 [9], ma anche V4 e PHY-LMV42, isolati in particolare da columbiformi e anseriformi [10]. L’impatto reale di questa circolazione virale in ambiente selvatico non è ancora ben conosciuto. Tuttavia, nonostante i ceppi vaccinali siano stabili e poco inclini a fenomeni di mutazione e reversione, è noto che la comparsa di nuovi virus patogeni passa proprio attraverso mutazioni puntiformi in posizioni strategiche della proteina F, a partire da virus a bassa patogenicità [11], come accaduto in Australia negli anni 1998-2000 [12].
Oltre alla trasmissione orizzontale diretta, anche la via alimentare può rappresentare una fonte di trasmissione del virus, soprattutto per i rapaci di medie e grandi dimensioni, da falconeria e selvatici, che si alimentano abitualmente di specie serbatoio, tra i quali vi sono, ad esempio, anche colombi e tortore [13,14]. Ovviamente, nelle strutture dove vi è grande concentrazione e promiscuità di fauna selvatica, il rischio epidemiologico aumenta enormemente. I centri di recupero possono offrire facili occasioni di scambio di virus tra individui di specie diverse, i quali spesso, in condizioni immunitarie e di salute precarie, sono costretti a lunghe degenze in ambienti ristretti e spesso condivisi. In questi contesti il controllo della diffusione delle malattie infettive diviene, pertanto, un obiettivo centrale al fine di scongiurare impatti diretti e indiretti sugli animali, sia durante la fase di ricovero che successivamente, dopo il loro rilascio in natura. Al fine di verificare l’eventuale circolazione del virus della Malattia di Newcastle è stato effettuato uno screening sierologico negli animali ricoverati presso il Centro Regionale di Recupero della Fauna Selvatica della Puglia. L’indagine è stata poi approfondita, al fine di verificare l’origine potenziale del contatto tra volatili e virus che potrebbe aver determinato la sieroconversione.