Samarelli R., Pugliese N., Lombardi R., Schiavone A., Circella E., Saleh M., Cafiero M., Raele D., Siddique I., Camarda A.
La malaria aviare è una delle malattie emergenti nell’ambito dell’avifauna selvatica, che potrebbe avere un impatto negativo sul benessere delle popolazioni di uccelli selvatici detenuti in cattività.
La malattia è sostenuta da parassiti appartenenti al genere Plasmodium (Apicomplexa: Haemosporida), ed è trasmessa da vettori. Sebbene diverse specie di zanzare appartenenti alla famiglia Culicidae siano ritenute vettori del parassita, Culex pipiens sembrerebbe essere la specie maggiormente coinvolta nella trasmissione dei plasmodi aviari e nel loro ciclo biologico [1-2]. Anche alla luce dei cambiamenti climatici, che favoriscono la diffusione e la persistenza dei vettori, la malattia ha diffusione pressoché ubiquitaria, ad eccezione per le regioni artiche ed antartiche [3-4].
Ad oggi, si ritiene che siano almeno 55 le specie di plasmodi in grado di indurre la malaria aviare negli uccelli [4]. Tra queste, Plasmodium relictum è la più diffusa [5]. Infatti, sono circa 220 le specie di uccelli che possono essere infettate da uno dei 5 principali genotipi di questo parassita, ovvero SGS1, GRW11, GRW4, LZFUS01 e PHCOL01 [4].
Gli uccelli infetti possono manifestare un quadro clinico ampio e variegato, che può variare in funzione della specie colpita e di una serie di fattori, alcuni dei quali tuttora sconosciuti [6-7].
Quale sia l’impatto reale della malaria aviare negli uccelli selvatici liberi in natura non è ben noto. Sono scarsi, infatti, i lavori scientifici di tipo epidemiologico sull’argomento. Ben diversa sembra la situazione nei centri di recupero o negli zoo, dove è noto che la circolazione del parassita può influire pesantemente sulla salute degli animali con grave impatto sulla qualità della vita [8]. La crescente diffusione della malaria aviare e la conseguente attenzione nei suoi confronti [9], ad oggi non hanno determinato la messa a punto di un protocollo terapeutico ben definito di cui sia stata dimostrata l’efficacia a lungo termine. Le informazioni disponibili in letteratura riportano, infatti, una varietà di trattamenti che spesso, però, si sono dimostrati poco efficaci o, in alcuni casi, tossici in alcune specie di uccelli detenuti in cattività [10-11].
In medicina umana, l’associazione farmacologica di atovaquone (A V) e proguanile cloridrato (PG) è tra le più utilizzate nel trattamento della malaria. Entrambe le sostanze sono attive sullo stadio intraeritrocitario del parassita. Nello specifico, l’atovaquone esplica un’azione schizonticida e gametocitocida inibendo il trasporto di elettroni all’interno delle cellule mitocondriali dell’organismo parassita. Il proguanile cloridrato, invece, esplica sia un’azione schizonticida nell’ospite, che di inibitore dello sviluppo delle oocisti all’interno del vettore, andando ad inibire la produzione dei folati necessaria per la sintesi del DNA parassitario. Quest’ultima molecola ha effetto sinergico sull’azione dell’atovaquone, incrementando così l’efficacia del farmaco [12].
Alla luce di tali osservazioni, con il presente studio si è inteso valutare l’efficacia dell’associazione atovaquone/proguanile cloridrato per il trattamento di tre esemplari di civette delle nevi (Bubo scandiacus) affette da malaria aviare, ospitate presso l’Osservatorio Faunistico Regionale della Puglia.