L’uso della vaccinazione ha rappresentato una delle maggiori scoperte nella storia della medicina ed è uno strumento fondamentale per il controllo delle malattie, incluse quelle emergenti, di interesse umano e veterinario. Nel corso del tempo nuove tecniche di sviluppo e somministrazione dei vaccini hanno permesso di massimizzarne l’efficacia e la facilità d’uso, minimizzando allo stesso tempo gli effetti collaterali [1]. Tuttavia, alcuni approcci tradizionali, come l’uso di virus attenuati, sono tuttora largamente applicati specialmente in medicina veterinaria, dove fattori economici e pratici giocano un ruolo di primaria importanza. Il virus della bronchite infettiva (IBV) è un ottimo esempio in tal senso, poiché la vaccinazione rappresenta un presidio fondamentale per il controllo della malattia da esso causata ed è quindi ampiamente utilizzato a livello mondiale. In particolare, i vaccini vivi attenuati sono quelli maggiormente applicati, in quanto garantiscono lo sviluppo di una forte immunità locale, umorale e cellulare, quantomeno nei confronti di ceppi geneticamente simili al vaccino. Inoltre, il loro sviluppo è relativamente semplice, il che permette di aggiornarli e introdurne di nuovi al variare dello scenario epidemiologico, fatto particolarmente frequente in funzione dell’elevato tasso evolutivo di IBV . Infine, la capacità di replicare ne permette una più agevole somministrazione in condizioni di campo, in incubatoio o in allevamento [2, 3]. L’escrezione del virus vaccinale può anche contribuire a migliorare il coverage complessivo in popolazioni vaccinate in modo sub-ottimale. D’altra parte, questi vantaggi comportano degli inevitabili effetti collaterali. L’attenuazione implica la selezione di varianti caratterizzate da una minor virulenza. Tuttavia, i virus a singolo filamento di RNA come IBV sono caratterizzati da un elevato tasso di mutazioni, indicativamente una mutazione ad ogni replicazione del genoma virale [4]. Non sorprende quindi che diverse varianti possano emergere sia in vivo che in vitro, come già dimostrato in precedenza anche nel caso di vaccini vivi attenuati [5]. Ne consegue che il processo di attenuazione sia spesso scarsamente prevedibile e controllabile e che alcune sottopopolazioni virali con una virulenza residuale potrebbero mantenersi, venendo poi selezionate durante la replicazione negli animali. Inoltre, anche in assenza di questo fenomeno, non vi è alcuna garanzia nei confronti di fenomeni di reversione a virulenza, in particolare qualora si instaurino “rolling reactions” in popolazioni animali solo parzialmente vaccinate. Entrambi questi fenomeni potrebbero esitare nell’emergere di focolai di malattia indotta dal vaccino.
La capacità del virus di replicare e diffondere fra gli animali e gli allevamenti ha anche importanti implicazioni dal punto di vista epidemiologico. Il riscontro di sequenze “simil-vaccino” in episodi di malattia può essere riconducibile a diverse cause: 1) riscontro accidentale del vaccino in presenza di altre cause di malattia, 2), coinfezione del vaccino con il ceppo di IBV di campo, nei confronti del quale la protezione è spesso parziale, 3) somiglianza casuale fra ceppi di campo e vaccinale, 4) reversione a virulenza del vaccino o selezione di sottopopolazioni vaccinali con diversa virulenza. È chiaro che ciascuno di questi scenari ha importanti ricadute pratiche sulla gestione dell’allevamento e sullo sviluppo e somministrazione dei vaccini. Sfortunatamente, la discriminazione fra ceppi di campo e vaccinali rappresenta ad oggi un problema largamente irrisolto.
La recente espansione della V ariante2 (lineage GI-23) in diversi paesi africani, asiatici, europei e più recentemente americani, ha determinato l’introduzione del vaccino omologo in molti stati [6, 7]. Questa scelta, a prescindere dai benefici pratici, ha ostacolato lo studio della reale presenza e prevalenza del ceppo di campo, nonché la stima delle conseguenze cliniche ed economiche. La routinaria attività diagnostica si focalizza tipicamente sul sequenziamento di parte del gene S1, regione determinante per il tropismo, la virulenza e l’immunogenicità del virus. Questo gene si caratterizza inoltre per una maggiore variabilità genetica che permette una migliore risoluzione nella caratterizzazione dei ceppi [8]. Nonostante ciò, sovente anche questa regione risulta inadeguata per la discriminazione fra ceppi vaccinali e di campo, non essendo stati definiti dei chiari cut-off [9]. In presenza di un numero limitato di mutazioni, diverse spiegazioni possono essere chiamate in causa: errori nel sequenziamento, evoluzione del vaccino in campo, selezione di sottopopolazioni vaccinali preesistenti, riscontro di ceppi di campo simili al vaccino, ecc. Sulla base di quanto detto, due tematiche appaiono particolarmente pressanti per i medici veterinari: la differenziazione fra ceppi di campo e vaccinali e la comprensione se il riscontro di ceppi di origine vaccinale in presenza di segni clinici sia riconducibile a forme di reversione a virulenza o rappresenti un riscontro incidentale.
L’identificazione di sottopopolazioni vaccinali e la loro caratterizzazione può essere di grande utilità per capire se alcune di queste siano più prone alla replicazione in vivo e possano emergere quindi come agenti di outbreak clinici. Inoltre, il confronto con sequenze ottenute in campo potrebbe contribuire alla comprensione dell’impatto della variabilità intra-vaccino nel complicarne la differenziazione rispetto ai ceppi di campo e potenzialmente alla definizione di mutazioni marker. A tal fine, tre lotti di vaccino basato su V ariante2 sono stati sequenziati tramite Next Generation Sequencing (NGS) per valutare la presenza e struttura di sottopopolazioni virali. Inoltre, le sequenze ottenute sono state confrontate con quelle ottenute da ceppi campionati in diversi allevamenti europei, per i quali lo status vaccinale fosse noto.