Il virus della bursite infettiva (IBDV) è senza dubbio uno dei patogeni aviari più impattanti a livello sanitario ed economico su scala globale. IBDV appartiene al genere Avibirnavirus della famiglia Birnaviridae, ed è caratterizzato da un genoma a doppio filamento di RNA composto da due segmenti, denominati A e B. Ne sono riconosciuti due sierotipi, chiamati 1 e 2, ma solo il primo è patogeno. IBDV causa una sintomatologia immunosoppressiva, diretta conseguenza del suo tropismo per i linfociti B immaturi localizzati principalmente nella borsa di Fabrizio (Alkie & Rautenschlein, 2016). Nei polli, l’unico ospite suscettibile alla malattia, il periodo di massima suscettibilità va dalle 2 alle 6 settimane, in cui la borsa di Fabrizio è al suo massimo stadio di sviluppo (Ingrao et al., 2013). La manifestazione clinica include sintomi aspecifici come depressione, disidratazione, anoressia e diarrea, con una mortalità estremamente variabile in base al ceppo coinvolto (Mahgoub, 2012). Le lesioni più frequenti comprendono emorragie a livello di muscoli della coscia e pettorali, un aumento del contenuto mucoso intestinale ed emorragie della mucosa della borsa di Fabrizio, la quale dapprima aumenta di volume per poi andare incontro ad atrofia. L’immunosoppressione predispone inoltre a infezioni secondarie e può compromettere l’efficacia della vaccinazione nei confronti di altri patogeni (Eterradossi & Saif, 2021).
Nonostante il grande interesse da parte della comunità scientifica, che fa di IBDV il quarto patogeno maggiormente studiato in ambito avicolo (Bertran et al., 2020), la classificazione di questo virus risente tuttora di una mancanza di standardizzazione e sistematicità. La tradizionale categorizzazione in ceppi classici, varianti e very virulent, è basata infatti su differenze sia in termini di virulenza che di antigenicità, richiedendo l’esecuzione di diversi test, a loro volta scarsamente standardizzati, per un’adeguata caratterizzazione (Jackwood et al., 2018). Un ulteriore punto a sfavore è la difficoltà nel caratterizzare adeguatamente una vasta gamma di ceppi atipici e dalla diffusione geografica spesso circoscritta, il cui ritrovamento è sempre più frequente. La diffusione delle metodiche molecolari, che ormai rappresentano i test più utilizzati a livello diagnostico, offre al contempo nuove opportunità e nuove sfide. Se è vero che esse non permettono una valutazione diretta né della patogenicità né dell’antigenicità, le potenzialità in termini di standardizzazione fanno di esse la piattaforma ideale per una classificazione robusta, informativa e dalla facile condivisione.
Un primo tentativo in tal senso è rappresentato dalla classificazione filogenetica recentemente proposta da Michel & Jackwood (2017), basata su una porzione ipervariabile del gene della proteina virale 2 (hvVP2), di gran lunga la porzione meglio caratterizzata del genoma di IBDV per via della sua centralità nella determinazione della patogenicità (Brandt et al., 2001). Questa classificazione individua sette diversi genogruppi all’interno del sierotipo 1. I genogruppi G1, G2 e G3, includono rispettivamente i ceppi classici, varianti e very virulent, mentre quelli da G4 a G7 raggruppano altrettante varianti atipiche, offrendo quindi una caratterizzazione più precisa dell’eterogeneità di IBDV . Il principale difetto di questa classificazione è che, basandosi solo sulla VP2, sita nel segmento A del genoma, essa non permette di individuare i fenomeni di riassortimento tra diversi segmenti, che gioca un ruolo importante nell’evoluzione genetica di IBDV (Jackwood, 2012; Wu et al., 2020). Una seconda classificazione, proposta da Islam et al. (2021), risolve questo problema prendendo in considerazione non solo la VP2, ma anche la VP1, localizzata sul segmento B del genoma. Vengono così individuati nove genogruppi basati sulla VP2 (A1-A9, largamente corrispondenti con quelli individuati dalla precedente classificazione) e cinque basati sulla VP1. I genotipi così individuati sono finora quindici, corrispondenti ad altrettante combinazioni tra i due segmenti (A1B1, A1B2, ecc.).
Questo lavoro riporta l’identificazione, durante le attività diagnostiche routinarie, di ceppi di campo sinora non riportati in Italia. A seguito del loro ritrovamento, ulteriori indagini sono state svolte per una più precisa caratterizzazione a livello molecolare.